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martedì 27 luglio 2010

FRAMMENTI



Non ricordo bene la strada! Era stretta, tortuosa, con i cespugli al lato. Fra i rovi occhieggiava qua e là, il giallo dell’erba bruciata da un sole inclemente. Piccoli sbuffi di polvere sottile, sotto i nostri passi lenti. Piccoli sbuffi, e la tristezza mi scivolava sul viso, fra minuscole gocce di sudore.
Partivi. E ci sarebbero voluti mesi prima del tuo ritorno.
Già mi mancavi, mentre percepivo l’odore aspro e forte della tua pelle scura. Tu parlavi, con quella tua voce profonda così diversa dai venti anni che avevi. Mi promettevi ciò che non avresti mantenuto. Sentivo nel fondo delle tue parole superficialmente affettuose, la smania del prossimo saluto. Sentivo l’ansia dell’addio, come un compito da svolgere in fretta, senza pensarci troppo, prima di spiccare il volo verso altri momenti che mi avrebbero esclusa.
Io restavo.
Restavo fra le case basse del paese, fra le strade strette, scarse di macchine e persone, allora. Restavo con i miei pochi anni e i miei molti sogni che non potevano seguirti laggiù nella grande città dove stavi per andare, con i tuoi occhi bruni, con le tue mani forti che smaniavano di afferrare la vita.
Ricordo la tua camicia aperta sul collo, i pantaloni chiari che ti disegnavano i fianchi. Ricordo la tua bellezza maschia e bruna che risvegliava in me desideri innominabili, allora. Io che ero così bambina, così stupidamente romantica nei miei gesti goffi, nelle parole trattenute, nelle mie insicurezze infinite.
Ero così bambina nei vestiti che mio padre sceglieva per me e per i quali mi prendevi un po’ in giro e ti irritava, forse, che io non fossi più donna, più sicura di me, che io non avessi la tua sicurezza spavalda, i tuoi gesti veloci e la sensualità che cercavi di insegnarmi.
Ti irritava il mio sguardo trasparente, che presto avrei perduto e la fiducia cieca che avevo in te e che sapevi di non meritare, perché non mi amavi e a questo non c’era rimedio.
Non ricordo la strada che si perdeva nei campi e che ora non esiste più, spazzata via dalle case. Villette con giardino e garage, a schiera o isolate, incastonate fra capannoni industriali e nastri di asfalto, segnali stradali che indicano una piccola città elegante e vuota di vita e di voci nelle strade deserte. Una città che ha venduto l’anima in cambio di un benessere fugace e che mi è estranea ormai.
Non siamo più giovani io e te. Abbiamo attraversato la vita con alterne fortune, lontani nel tempo e nello spazio. E non riesco a immaginare il colore che oggi hanno i tuoi capelli, e se ancora ne hai di capelli, mentre inforchi gli occhiali per leggere il giornale. Non riesco a immaginare il tuo corpo appesantito dagli anni o forse no. Chi può dirlo, tanto è il tempo che è passato dall’ultima volta che ti ho visto.
Allora non tornasti. Non tornasti da me. Con la vita nei pugni non ti serviva più la ragazzina incerta che io ero. Io stessa sono partita, verso una vita non mia che tuttora stento a riconoscere nonostante mi ci sia abituata, con un fatalismo vigliacco al quale ho sacrificato tutti i miei sogni di ragazza.
Ma adesso che il tempo ha vinto la partita, non ricordo la strada dove tu mi dicesti addio, senza dirmelo, con le promesse che non avresti mantenuto, e di tutti questi anni che sono passati, mi resta nel ricordo, l’immagine dei tuoi passi lenti in quel giorno d’estate e la tua voce bassa che pronunciava parole che non ricordo, mentre i tuoi occhi erano già lontani verso l’orizzonte dietro il quale si nascondevano i tuoi sogni che presto speravi di raggiungere.
Frammenti. Ecco cos’è la vita. Frammenti di ricordi, mischiati con i sogni, che uno sbuffo di vento disperde.

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