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mercoledì 18 aprile 2012

SCHEGGE DI VETRO





 La strada è stretta, lastricata di pietre laviche, irregolari e ruvide.
Si inerpica nervosa fra vecchi palazzi del primo novecento.
Non conosco questo posto. Una città sconosciuta nel luogo del mai.
Mi muovo come in un posto familiare. Devo tornare a casa.
Ma all’improvviso mi ci trovo dentro.
Ma che casa è questa? Un palazzo antico, grande, pieno di stanze che si avvitano su se stesse, senza corridoi. Da ogni stanza si accede direttamente alle altre, senza soluzione di continuità.
Una donna sta spazzando il pavimento, concentrata e severa. Mi sembra così normale che si trovi li, come se faccia parte della casa. Ma non la conosco, non l’ho mai vista.
Lei mi dice che la casa è mia. Mia? Ma come! E’ così diversa dal mio gusto, da me? Non dico che non sia bella ma è comunque estranea alla casa che vorrei per viverci.
Questi stanzoni enormi pieni di mobili pesanti e classici, con quelle enormi librerie che coprono i muri, dove i libri sono così in alto da essere irraggiungibili, tutti questi soprammobili di dubbio gusto che coprono ogni superficie, cosa c’entra tutto questo con me?
Eppure se lei dice che la casa è mia, c’è da crederci.
Continuo a girare per le stanze. Non sono male dopo tutto, anche se mi accorgo che non ci sono finestre ed è solo il colore vivace delle pareti che illumina gli ambienti. Un colore diverso per ogni stanza e una strana luce artificiale giallognola come da lampadine di pochi watt.
A parte la donna, ci sono solo io in questa casa così grande, in mezzo a questi oggetti strani ed estranei. Il tempo stesso è immobile e non ci sono specchi che mi rimandino la mia immagine, al punto che neanche riesco ad immaginare il mio aspetto.
Sono  e basta.
Stranamente non riesco neanche a vedere il mio corpo, che pure ci deve essere se mi permette di spostarmi da un ambiente all’altro. Tutto ha un aspetto polveroso come di cose accantonate nel tempo, senza ordine né metodo, e senza una particolare attenzione. Cose dimenticate in un canto attraverso i giorni e gli anni, che pure devono aver significato qualcosa, ma ora quel significato si è perso, lasciandole orfane di emozioni e sensazioni.
Sono sempre sola in queste case vuote, enormi, deserte, e se c’è gente, sono persone che non conosco, né ho mai visto e con le quali non parlo.
Sono sempre sola in questi sogni ricorrenti, immersa quasi in questa solitudine assoluta, ma non dolorosa, quasi rassicurante.
A lungo mi sono chiesta cosa significassero questi sogni che mi seguono nel corso della mia vita come compagni di viaggio silenziosi e affezionati. Perché è evidente che un significato devono averlo, se continuano a tornare e tornare, sempre con gli stessi modi, sempre con la stessa atmosfera.
Certe volte le case non hanno finestre, appunto, sono claustrofobiche e buie. Altre volte possiedono grandi vetrate dalle quali è possibile vedere fuori, ma allora sembrano più scuole o ospedali, comunque edifici pubblici, ma io ne sono comunque prigioniera.
Percorro corridoi infiniti, pieni di persone sconosciute. Corridoi che non mi portano in nessun luogo. Mi sveglio sempre prima di aver trovato la strada per l’uscita.
Mi viene in mente adesso che queste case che vedo nei miei sogni rappresentano la mia vita così piena di cose inutili, di emozioni polverose, di ruoli che non sento e sono costretta a vivere per viltà, per la mancanza di coraggio che sempre mi ha accompagnato, di essere me stessa, realmente fino in fondo. E così io vivo in me stessa, come prigioniera, mentre la vita scorre fuori di me e io non riesco a raggiungerla.
Certe volte nemmeno riesco a vederla , perché non ci sono finestre che mi permettano di uscire dal caleidoscopio colorato di tutte le sfumature di grigio della mia anima.
E i giorni si accumulano come grani opachi di una collana di poco prezzo, ruotando su se stessi, inetti e inutili.
Da queste case oniriche, da questi luoghi dell’anima, io non uscirò mai, prigioniera per sempre come, nella realtà, lo è mia madre nella sua grande casa vuota, nel gelo delle stanze deserte e silenziose, confine invalicabile di un mondo sempre più piccolo e soffocante.  Solo la morte la libererà, restituendole le sue gambe di ragazza che non la portarono lontano, ma la lasciarono prigioniera di una vita infelice come ora lo è la mia.
Oppure sogno città sconosciute, immerse nel buio. Le strade deserte e silenziose, dove io mi muovo impaurita e incerta perché vorrei tornare.
Ma tornare dove? A casa? E dov’è la mia casa fra queste strade strette e sconosciute, che il buio rende ambigue e inquietanti. Dov’è la casa della mia infanzia, la bruna e scontrosa bellezza di mio padre? Dove sono i miei giochi infantili che ancora non conoscevano quel dolore dell’anima che rende insipida la vita. Si sono persi gli echi delle mie risate di bambina, la voce argentina con la quale inventavo storie sfogliando le riviste di mio padre, dando a quei segni per me ancora sconosciuti, che mi scorrevano davanti agli occhi, il significato festoso delle mie fantasie.
Che cosa ha spento nel tempo, l’allegria di quella bambina dalla testa piena di riccioli castani e i lineamenti irregolari e vivi? Furono forse i silenzi di mia madre? La sua infelicità rancorosa e testarda, quel suo incomprensibile accanirsi pervicace e inflessibile, a smantellare la sua bionda e dolce bellezza?
O forse fu la durezza di mio padre, il gelo dei suoi sentimenti racchiusi dietro il muro invalicabile di un vago e indefinibile dispetto, come se io avessi la grave colpa di non riuscire a raggiungerlo laddove lui custodiva quel suo ideale di “figlia” che io non potevo essere e che infatti mai fui?
Cos’è quest’assurda malattia che mi impedisce di vivere vivendo, vegetando da un giorno all’altro, rincorrendo inutili nostalgie?
Non voglio invecchiare, non voglio assistere allo sfacelo del mio corpo e della mia anima come ho assistito a quello di mio padre prima e quello di mia madre ora. Perché bisogna odiarsi molto per perseguire con quella tenacia la propria auto distruzione.
Bisogna odiarsi molto per chiudere l’anima alla gioia, all’allegria, alla sana curiosità della vita.
Non voglio.
E baratterei la vita con la morte pur di sfuggire all’odiata vecchiaia, che pure silenziosa mi alita sul collo, nascondendosi nelle pieghe del mio ventre ormai sterile, fra i circuiti impazziti dei miei ormoni sconvolti che mi condannano a pianti disperati e a rabbie improvvise e irragionevoli.
E spio sul mio viso, i primi segni dell’opera implacabile del tempo. E sul mio corpo i primi segni di un cedimento inevitabile. Un brivido di gelo mi prende alla gola, come un dolore pungente, come una stilettata nel cuore.
I ricordi sono come schegge di vetro infisse nel cuore, perché non c’è sollievo all’amore negato, non c’è risarcimento per una bambina che non fu amata, e che non amandosi non ama, condannando il proprio figlio allo stesso amaro doloroso destino.
E questi oggetti di cui mi circondo, ognuno simbolo di un passato doloroso, non fermeranno il tempo che mi porta via anche la speranza di vivere ancora, quello che non vissi allora e nessuno potrà mai restituirmi.
Con le parole ricamo l’ordito di quello che è stato il mio destino. Una storia in mezzo ad altre storie.
Io, un personaggio, fra tanti, quelli che immagino ogni giorno, inventandomi vite sconosciute, battendo sui tasti del mio computer.
Ma la mia storia è fatta di carne e sangue, la mia storia, non è un romanzo che si possa mettere in un canto dopo averne letto le prime pagine perché non ci piace. La mia storia mi accompagna implacabile e tenace come una condanna ingiusta, come una malattia inguaribile.
E nella vita navigo a vista, annaspando fra le onde delle mie inquietudini, perché non c’è porto che io possa raggiungere se non quello della “Grande Tessitrice” che ci aspetta tutti prima o poi infischiandosene di torti e di ragioni. E sia dunque. Se è questa la vita, allora sia.

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