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sabato 18 settembre 2010

LA RABBIA E' DOLORE VESTITO DI ROSSO


La rabbia è dolore vestito di rosso. Lei aveva quegli occhi che lanciavano pietre e le sue parole erano scintille d’odio.
Non posso sopportarlo diceva, ma poteva sopportarlo benissimo. Era una vita che lo faceva. Tenersi dentro quel dolore sordo ome un macigno alla bocca dello stomaco, come un verme che scava tunnel di angoscia facendosi strada fra le maglie sfilacciate dell’anima. E sembrava che non arrivasse mai quel dannato verme, perché continuava a girare e girare su se stesso e dentro di lei senza fermarsi, senza darle tregua.
Il suo viso allo specchio era sempre lo stesso: i lineamenti tirati, due pieghe amare all’angolo della bocca.
Si tolse dalle labbra la cicca di sigaretta e la spense con rabbia col tacco della scarpa.
Lui la guardava. Aveva quell’espressione di cane bastonato che la faceva inferocire ancora di più. Se avesse avuto orecchie da cane le avrebbe tenute basse, ma invece aveva piccole orecchie carnose e occhi dallo sguardo fragile.
Taceva. Lasciava che lei gli urlasse contro, senza muoversi senza fiatare.
E nel profluvio di parole che gli vomitava addosso, ad un tratto lei sentì con certezza dolorosa che non le capiva affatto. Che le sentiva senza ascoltarle.
Parlavano due lingue diverse.
Non la capiva la posta in gioco. Ma poi pensò che neanche lei stessa capiva quella rabbia sterile che la prendeva di fronte alla presunta debolezza di lui. A quello sguardo mite che lei avrebbe voluto più combattivo, più rabbioso.
Come quando lui la prendeva fra i fiori dipinti delle lenzuola odorose dei loro corpi accaldati e lei sentiva i muscoli del suo corpo tendersi come deve fare un uomo quando possiede un corpo di donna. Con quella forza li che la teneva ferma, schiacciata contro il materasso sempre più
madido. Con quello sguardo avido e duro.
E quelle mani rapaci che afferravano, esploravano, premevano.
Era così che gli piaceva pensarlo.
Ma quando lui scivolava inesorabilmente nella sua debolezza, le sembrava svanisse la magia che c’era fra loro e lei non era capace di dirgli che non riusciva più a desiderarlo. Che aveva bisogno di sentirlo più forte di lei e non un cucciolo spaurito da consolare.
Non riusciva a spiegargli quel dolore nel fondo dell’anima che si infrangeva nello sguardo fragile di lui.
Lui cercò di interrompere il flusso imperioso delle sue parole. Aveva argomenti poco convincenti ma sapeva come esporli. E si muoveva per la stanza, agitando le mani, con gesti vigorosi eppure infantili e lei voleva dirgli fermati per dio e ascoltami…Ma ascoltare cosa poi!
Si rese conto che aveva perso il filo dei suoi stessi pensieri. Le emozioni avevano preso il sopravvento. Le
emozioni? Solo una a dire il vero: la rabbia.
Ma la rabbia per cosa? La debolezza di lui? La sua? La rabbia e basta.
La rabbia delle donne. Secoli di rabbia. Vagonate di rabbia.
Per i soprusi subiti? Per le umiliazioni? Per la propria debolezza? Per quella incapacità di ribellarsi se non in inutili gesti sterili?
Poi si accorse che aveva dentro un nervo scoperto che faceva male ma non perché era una donna, ma solo perché era lei, fatta a quel modo sbagliato con quel cervello che macinava pensieri, tornando sempre indietro, spirali su spirali di sensazioni, di parole, sempre quelle, sempre. Prigioniera della sua disperazione, della sua inettitudine, della frustrazione di non riuscire a vivere rispettando se stessa.
Lui smise di parlare. Era inutile. Il silenzio ostile di lei era la prova dell’incapacità dei suoi discorsi di penetrare lo spesso muro della sua ostilità diffidente.
Si sentì stranamente impotente nel suo amore che non riusciva a salvarla da se stessa.
Da quell’ansia invincibile di distruzione che la prendeva talvolta in certi giorni duri che attraversava affannosa.
Giorni come quello in cui la sua vita sembrava inciampare in un disgusto rabbioso per tutto e per tutti, compreso lui, compresa se stessa.
E che poteva fare lui se non abbracciarla? Che poteva fare?
Ma lei non voleva. Sentiva il suo corpo ritrarsi ostile.
Persino le labbra che aveva morbide e carnose, lo respingevano.
Lei sedette, continuando a guardarlo. E si trovò a pensare a quando era bambina e sua madre leggeva una rivista, mentre lei giocava, seduta sul pavimento. Nel silenzio.
Era quella, la rabbia di sua madre. Il silenzio.
Sua madre non alzava mai la voce. Aveva occhi distanti dallo sguardo chiuso su pensieri immobili. Certe volte sembrava una foto di donna senza dimensioni se non quella dell’immagine esteriore. Una foto di donna che si muoveva per casa, faceva le faccende, leggeva le riviste. Una foto senza pensieri, senza parole da dire.
Ma ora capiva che era la rabbia. La rabbia nascosta della sua infelicità, che la faceva muovere come un automa nella piccola casa silenziosa.
Non parlava; non le parlava. Cresceva sua figlia a immagine di se stessa, con quel senso di inferiorità latente, sottile e infido che le fava abbassare gli occhi di fronte al suo uomo per sfuggire alle rabbie inutili di lui. Improvvise, senza ragioni apparenti. Fragorose come un temporale che annuncia l’autunno. Ma l’odiava.
Chinava gli occhi e lo odiava odiandosi. E sua figlia la stessa.
Devi, devi, devi…e mai Vuoi, vuoi, vuoi.
Devi fare questo o quello, devi essere questo o quello, devi e basta e non importa se non vuoi, se vorresti qualcosa di diverso. Non importa quello che vuoi, importa solo quello che meriti e tu non meriti nulla, tu sei piccola sei stupida, non capisci, sei una donna…
E così che si nutre la rabbia delle donne verso gli uomini, verso se stesse.
E’ un cancro che vive di sangue e carne. Che si nasconde negli anfratti del cuore, negli angoli bui dell’anima e non importa che tu sia bella o brutta, intelligente o stupida, buona o cattiva, comunque sei piccola, sei stupida, non capisci…E’ così che ti vedi anche nel vestito più bello, sotto il trucco più sofisticato e non ti piaci. Non ti piaci mai.
Questo pensava la donna mentre lo guardava smarrendo all’improvviso, il solco dei discorsi di lui e dei suoi stessi pensieri.
“ Quest’uomo mi ama” si diceva e le sembrava impossibile. Come poteva amare lui…una donna…lei?
Le donne non si meritano di essere amate, forse possedute, forse maltrattate, forse messe sul piedistallo perché non pensino, non vogliano, non cerchino un rispetto impossibile da pari a pari. O era lei che non lo meritava ed essere donna era una cosa irrilevante a quel punto?
Sua madre era una donna spenta che aveva rinunciato ancora prima di esserne consapevole.
Lei la guardava e pensava sempre Come odio la debolezza delle donne!
Allora era un’adolescente ribelle e risoluta dall’anima fragile come un cristallo che presto qualcuno avrebbe frantumato.
Suo padre il primo grande amore della sua vita. L’irraggiungibile obiettivo del suo desiderio di significare qualcosa, di essere qualcuno e non soltanto la bambina che è piccola, che non capisce, che è meno di niente perché mi hai deluso, figlia mia!
E lei non capiva perché l’avesse deluso, era brava a scuola, era buona, non faceva mai niente di sbagliato e allora perché? Ecco perché! Era lei ad essere sbagliata…Non poteva che essere
questa la ragione. Si portava dentro il peccato originale di essere quella che era, e suo padre non glielo perdonava. E non importa se era bella, buona, se era brava, era sbagliata e basta, senza speranza.
Nessuno mai l’avrebbe amata. Se non ci riesce tuo padre chi altro potrebbe farlo?
La rabbia di una donna si nutre dell’amore mancato. Del vuoto che lascia un padre che non riesce ad amarti. Perché sei una donna? O perché semplicemente sei tu? Non riusciva a capirlo; non l’avrebbe saputo mai. Suo padre aveva nascosto le ragioni del suo respingerla, in un silenzio impenetrabile, in un distacco invincibile.
Abbracciami papà, abbracciami non darmi solo quei baci formali e freddi sulla guancia…Ma lui non l’abbracciava mai. Era questa la ferita. Non l’abbracciava perché lei non lo meritava.
La rabbia delle donne, il senso invincibile del rifiuto che ti porta a cercare l’ennesimo maschio che ti ferisce, che ti usa che ti uccide, per conquistarti l’illusione di un’improbabile rivincita.
Lo guardava. Lui era così dolce, lui l’amava eppure non sapeva quando la offendesse la sua fragilità, quel suo
arrampicarsi fra le maglie di pretesti inaccettabili e banali per spiegare ciò che non poteva essere spiegato. Tornare indietro era impossibile. Tornare al punto in chi lui l’aveva ferita. La rabbia la inchiodava nel limbo di un rancore senza rimedio. Qualunque cosa lui avesse detto o fatto, era oramai inutile. Era come cadere dall’alto di un dirupo. Anche se vuoi non ti puoi fermare, non puoi tornare al punto in cui il tuo piede è scivolato nel vuoto, per impedire che questo accada. Ora la donna non poteva fare altro che cadere e cadere, pregando solo che finisse presto quel dolore lancinante nel buio del cuore. Ci sono gesti a cui non c’è rimedio, si può solo sperare che siano presto sostituiti da altri gesti che permettano di dimenticare.
Questo pensava lei guardandolo. La rabbia delle donne si mangia il tempo. Si mangia l’amore, qualunque cosa. E’ l’ossessione che divora, il vortice che ti inghiotte, il mostro che vuole sangue e dolore e solo allora si placa.
Lui non capiva. Cercava di placarla senza sapere che doveva dare qualcosa in pasto a quel dolore e a quella rabbia. Ma non aveva niente da dare, niente di cui fosse consapevole. Non riusciva a darle che se stesso, ma a lei non bastava. Non era lui il nemico da distruggere e annientare.
Alla fine tacquero entrambi. Nella stanza, piano era scesa la sera. Il buio rendeva indistinti i contorni delle cose, mischiava le carte. Tutto si confondeva.
Lei pensò: “C’è solo buio, dentro e fuori di me.
Buio che uccide.

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