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martedì 22 maggio 2012

FOTOGRAFIE




Le foto fermano i momenti.




Saccheggiano il tempo per rubargli attimi di eternità.

Volti, gesti, persone finite nella polvere.

Storie che non esistono più.

Quando la vita nostra è essa stessa ridotta in polvere, i nostri occhi, il nostro sorriso, occhieggiano gelidi sulla carta patinata.

Questo pensava, gli occhi fissi sui rettangoli di carta lucida o opaca, dal quale lo guardavano altri occhi, altri sorrisi, altri oggetti e paesaggi, fissati per sempre dall’obiettivo imparziale di una macchina fotografica.

Aveva sparso le foto sul letto e lui ci stava accovacciato in mezzo. Le guardava, accogliendole tutte in un unico colpo d’occhio.

Guarda la mamma in abito da sposa! Ha quel sorriso spaesato che aveva da ragazza e che ha perso nel tempo. E questo sono io, le guance pienotte, gli occhi tondi. Mi succhio il pollice e sono contento. Accovacciato come un budda sulla trapunta di seta della nonna.

E lì quando andammo a Cortina io Lupo e Giovanni con la 127 di mio padre e niente soldi in tasca. Guarda quanti capelli avevo! E Lupo tutti i suoi denti. Ma Giovanni è sempre lo stesso. La stessa aria golosa di affamato di sesso e di donne. Sicuro che anche ora che mangia la terra da trenta anni, insegue le donne all’inferno o dove diavolo è in questo momento, se c’è!

E nella foto gli sembrava vivo, con quel sorriso scanzonato sul viso glabro, i due incisivi leggermente sovrapposti, attraverso i quali le parole sembravano uscire frusciando. Gli sembrava di risentire la sua voce di ragazzo,roca, come quando raccontava improbabili avventure che inventava con la sua fantasia curiosa e gagliarda. Sapeva raccontare storie che erano meglio di un film. Ma la sua storia la vita gliel’apparecchiò diversa da come lui l’aveva immaginata. O fu la morte, che incontrò una notte d’estate sul rettilineo che portava al mare, mentre con la moto andava a trovare l’ultimo suo amore.
 “Ho freddo. C’è uno strano silenzio in questa notte di cose immobili, di anime perse.

Ho paura, ma è forse è solo che mi sento perduto e non posso tornare.

E’ come una ferita sull’asfalto, il segno nero della gomma bruciata, e il rosso del sangue, del mio sangue.

Non avrai più le mie labbra da baciare, o i miei occhi in cui specchiare il tuo sguardo, dolce bambina.

Era da te che tornavo, era per te che correvo, ma adesso è tardi.

Dolce notte amore mio. Dolce notte”

Della moto non rimase che una carcassa accartocciata oltre il gard rail, e di Giovanni poco di più.

Qualcuno posò affiancate, le sue scarpe sul ciglio della strada, e quelle scarpe davano un’impressione di solitudine indicibile e assoluta e forse l’anima di Giovanni le cercava da quel posto smarrito nel quale si era perduta per mai più tornare…



Stefania aveva un corpo lungo di gazzella. Seni pieni e vita sottile. Prendeva il sole d’estate fino a diventare nera come un pezzo di cioccolata fondente e si faceva baciare al fuoco dei falò, ma niente di più quando lui spingeva le mani sul suo corpo sodo. Lei aveva lo sguardo distante dal quale spuntava una dolce tenerezza che lui aveva confuso con l’amore. In questa foto ha uno sguardo un poco opaco mentre sorride un pò imbarazzata.

L’aveva amata forse con l’ingenuità del ragazzo che era stato, portandola a ballare nelle balere, le labbra sulle labbra e l’odore dei suoi capelli che impregnava i ricordi.

Sulla moto lei gli si avvinghiava stretta e lui sentiva le punte dei suoi seni sulla schiena. Si erano detti addio quasi per gioco invece era stato per sempre e per anni a lui era rimasto nel cuore il gusto agrodolce del rimpianto.



E questa? Lui stava ritto accanto a una camionetta militare. La divisa impolverata, un piede posato sul predellino, il gomito appoggiato sul sedile in alto, dietro la portiera aperta. Ha lo sguardo scanzonato che poi non ebbe mai più e sembra che abbia visto troppi film di guerra, il fucile appoggiato con noncuranza sulla spalla.

Che poi alla guerra non ci aveva mai giocato, avendo fatto la naia al chiuso di un ufficio polveroso per tutto il tempo. Ma a sua madre scriveva lettere formidabili piene di storie e di aneddoti che neanche Giovanni avrebbe saputo raccontare. E immaginava suo padre leggerle a voce alta seduto a capo tavola, la domenica con tutta la famiglia riunita.



Rosa era morbida e docile. Capelli bruni e occhi dolci, liquidi e neri sotto le sopracciglia spesse. Carina senza essere bella, gli si stringeva accanto mentre lui si ritraeva senza accorgersene. Lei lo guardava sognante per i troppi romanzi d’amore che aveva letto, lui aveva lo sguardo smarrito.

Il braccio sulla spalla gli occhi che guardavano altrove in un futuro poco desiderato. Come poco aveva desiderato lei, fin da subito. La giovinezza è un vizio dal quale si guarisce presto purtroppo.

L’aveva sposata. Lo smoking, le scarpe di vernice. Gli invitati. Nel vestito bianco vaporoso Rosa sembrava una di quelle bambole che le vecchie signore mettono nel centro del letto tutte pizzi e nastri. La prima notte di nozze avevano dormito, erano troppo stanchi. E poi lo furono sempre per tutti i giorni della loro vita insieme.

Finché morte non vi separi… all’inizio fu una promessa, poi minacciò di essere una condanna.

Ma nella foto lei sorrideva e sembrava felice.



Suo figlio aveva gli occhi della madre così scuri e fondi, ritrosi e timidi. Era un bambino silenzioso e docile che lui portava per mano scoprendo ogni giorno che non gli somigliava affatto. Ma se rideva era così bello e gli sembrava quasi che avrebbero potuto diventare amici.

Eccolo lì in prima elementare. Il grembiulino inamidato e lui che ci stava dentro impettito come un piccolo soldato.

Lo riempiva di parole che il bambino sembrava ascoltare ma era dalla madre che correva quando inciampava nei sassi della vita.

Poi per anni non ci furono foto.

Non c’era un tempo da trattenere. Né momenti né niente.

Senza le foto a fermarli, gli anni si erano come dissolti, rimanendo solo in forma di schegge, nei ricordi.

Immagini confuse senza logica né sostanza. Come quando ci si sveglia da un sogno di cui si è smarrita la trama.

Ma chi è quella ragazza coi capelli chiari e quel buffo cappellino di un tempo lontano? La zia Ines?

Sorride, ha il sole negli occhi e le nuvole nel cuore. Dovrebbe avere all’incirca 20 anni. Dietro di lei la polvere di strade non asfaltate. La piazza era sempre la stessa, ma le case erano rade e basse e il sole sembrava di polvere. Ma Ines era felice, abbracciata ai suoi venti anni come ad un tenero amante e la vita davanti era sterminata come la strada che portava al mare e scivolava fra i sassi e i ciottoli trasportati dalle onde. Ines era felice come quando sessant’anni più tardi spiccò il suo ultimo volo dalla terrazza di casa sua inseguendo il suo ultimo sogno o forse incubo e sciogliendo i lacci di un corpo che oramai non riconosceva più…



L’uomo raccolse le foto per rimetterle nella scatola dalla quale le aveva prese. Fuori imbruniva.

Fra le tante ce n’era una che non avrebbe dovuto trovarsi lì. Il letto anonimo di una stanza d’albergo e lei distesa prona. Il viso ombrato dai capelli, appoggiato alle braccia, non si vedeva. Ma il corpo bianco e morbido lo ricordava bene.

Giulia.

Il sorriso di Giulia. La sua risata così rara. Non aveva bisogno delle foto di lei per ricordare.

Il sedile di pietra dove Giulia era seduta e dietro i sassi di Matera. Sembrava una ragazza e allora lo era. La maglietta azzurra che tirava sui seni. Gli occhiali da sole che scivolano sul naso per l’afa di quella primavera sbagliata. E poi il temporale che arrivava.

L’aveva presa per mano ed avevano attraversato la piazza di corsa, mentre i primi goccioloni cominciavano a cadere.

Poi lei che ride seduta al tavolo di un ristorante, la piccola mano stretta fra le sue. Sembrava, allora che la felicità sarebbe stata un destino e la giovinezza un dono insperato, ma invece…

I ricordi meglio delle foto, stracciavano i momenti, separandoli dal flusso imperioso del tempo che tutto macina.

La tristezza di Giulia, il suo pessimismo invincibile che si insinuava nella loro storia, infettandola. Non c’era bisogno delle foto per quello. Lo ricordava benissimo.

Le sue rabbie immotivate che le indurivano il viso. Le discussioni interminabili che non scioglievano mai quel sordo dolore che lei sentiva dentro e che lui non capiva.

E così scivolava via la loro storia, nel spasimo reciproco.

E la felicità di quei giorni lontani, immortalati da quelle poche foto, diventava via via più irraggiungibile.

L’uomo continuava a guardare le foto, mentre nella stanza la luce svaniva. Dalla finestra aperta entrava il profumo dolciastro dei biancospini come di cose morte e ormai marcite…

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