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martedì 29 marzo 2011

SENTIERI PERDUTI



Mia madre aveva qualcuno che la rendeva felice.
Ma non era mio padre.
La guardavo infilare le calze sulle lunghe gambe snelle. Sembravano di seta.
Liquida seta scura che scivolava sulla carne facendo brevi sfrigolii elettrici.
Senza pudore le srotolava, per agganciarle ai ganci del reggi calze, mentre io la guardavo.
Sorrideva. Sul corpo slanciato il vestito scivolava, segnando le forme dei seni pieni e dei fianchi morbidi.
Così era mia madre alla fine degli anni sessanta. Si spruzzava profumo dietro i lobi delle orecchie, nell’incavo dei seni e sui polsi sottili. Poi indossava il suo cappellino azzurro sui capelli chiari che teneva spettinati in piccoli riccioli fragili e usciva.
“ Ciao bimbo” mi diceva. “ Ci vediamo più tardi.”
Ma bimbo non lo ero da un pezzo. Avevo quindici anni amari di rabbia e malinconia. Non sapevo dove andasse e non volevo saperlo.
Mi bastava vederla sorridere con quella luce che qualcosa o qualcuno le aveva acceso negli occhi. Mi bastava sentire l’eco della sua risata, quando mio padre non c’era e la casa perdeva l’atmosfera plumbea che lui riusciva a creare.
Mia madre era il mio amore; la amavo e la odiavo con la stessa intensità, per quei suoi gesti distratti quando mi accarezzava i capelli mentre pensava ad altro.
Perché io non ero per lei che un tenero impiccio di cui liberarsi in fretta per fare altro, per correre dietro ai suoi sogni.
Mi abbracciava distratta la mattina quando andavo a scuola e io le leggevo negli occhi l’impazienza, l’ansia di rimanere sola con se stessa. Sentivo il profumo denso dei suoi capelli che mi sfioravano le guance, il calore odoroso del suo corpo che portava le tracce della notte appena trascorsa.
La mia nascita era stata un incidente di percorso nell’ordito della sua vita e non faceva nulla per nasconderlo. Sentivo che per lei cominciavo a esistere solo ora che stavo trasformandomi in un giovane uomo. Mi voleva bene a suo modo, ma non certo per il bambino che ero stato e che le aveva tolto, a suo dire, gli anni migliori della giovinezza.
Avrei dato non so cosa per piacerle ma sentivo che la deludevo, che non ero come lei avrebbe voluto che io fossi.
La ferita del suo rifiuto era sempre aperta dentro di me e forse anche in lei e sanguinava nelle mie ire improvvise e nelle sue, quando le voci si alzavano di tono e ci rivolgevamo insulti sanguinosi, perché io la odiavo quasi quanto la amavo e lei odiava me più di quanto mi amasse.
Ma quando sorrideva era bella e si faceva perdonare mia madre. Si faceva perdonare sempre.
E così quando mi accorsi che scivolava verso un amore tardivo, finsi di non saperlo anche se la gelosia mi tormentava perché lei dava ad altri ciò che sempre aveva negato a me.
Di mio padre ebbi sempre un ricordo confuso come di un’ombra che scivolava nelle nostre vite lasciando dietro di se il gelo. Il gelo del freddo che aveva nel cuore e nelle braccia. Braccia che non abbracciavano mai, mani che non accarezzavano, bocca che non baciava.
Facevo fatica a volere bene a mio padre.
Oggi mia madre siede davanti alla finestra aperta e guarda l’orizzonte.
E’ persa dietro qualche pensiero noto a lei sola. Nei suoi occhi liquidi la luce si è spenta da tempo. Credo che veda solo ombre confuse anche se lei non lo ammette. Ha l’orgoglio di negare quanto è riuscita a distruggersi.
Nel guardarla mi accorgo di odiarla.
Di odiare il modo assurdo col quale ha distrutto la sua vita e poi anche la mia.
Cominciò col farsi crescere i capelli.
Quei suoi riccioli fragili, divennero ciocche spettinate che lei attorcigliava alla meno peggio sulla nuca.
Io ero troppo preso dai miei primi amori giovanili per accorgermi che il sorriso si era spento sulle sue labbra e la sua voce si faceva ogni giorno più roca per le troppe sigarette che aveva cominciato a fumare.
Fra lei e mio padre poche frasi rabbiose, nel silenzio ostile che impregnava le stanze. Si odiavano sotto la sottile superficie delle convenienze.
Sempre che mio padre fosse capace di odiare e comunque il suo era un odio freddo, razionale, un’arma perfetta per distruggere l’essenza più profonda di mia madre, mentre lei esprimeva un rancore superficiale e temporaneo incapace di fare male davvero se non a se stessa.
Ma la rabbia negli anni si sedimentò nel suo cuore corrodendolo.
Non finisce mai di stupirmi quanto sia vivo in lei il rancore ancora oggi che mio padre mangia la terra da dieci anni e lei stessa è un pallido mucchietto d’ossa rattrappite.
Mio padre era orgoglioso della sua bellezza che mostrava agli amici come un trofeo senza però provarne desiderio e fu in questo che mia madre attuò la sua assurda vendetta.
Non più calze di seta sulle gambe snelle e rosso sulle labbra carnose.
Non più vestiti aderenti sulle forme piene, ma sdrucite vestagliette su un corpo tradito, abbandonato, dimenticato, lasciato a perdersi nel disamore che alimentava il dolore e la rabbia.
Me la ricordo ancora nella sua trasandatezza irosa con cui si opponeva all’indifferenza ostile di mio padre che oramai neanche la guardava più.
Ma io ancora l’amavo. L’ho amata sempre.
Anche ora che mi guarda con quegli occhi lacrimosi e senza luce che hanno i vecchi.
Oggi ha le labbra sottili, serrate sul vuoto dei denti che non ha più.
E’ piccola e contorta e sembra sia fatta di niente sotto la pelle sottile.
Non gli ho mai chiesto chi fosse l’altro e perché scomparve dalla sua vita.
Ho avuto sempre quel pudore di difendere i suoi segreti. Ma vorrei penetrare i suoi pensieri dai quali mi ha sempre escluso o forse ero io che non volevo leggerle dentro.
Non volevo. Sentivo la malattia dei nostri rapporti, la tristezza che impregnava ogni cosa e la sua rabbia.
Avevo il terrore che se ne andasse via.
Quando lei tornava a casa con quella luce negli occhi, il viso stravolto, felice come una ragazza, io pensavo che un giorno o l’altro ci avrebbe lasciati a me e mio padre. Era meglio fingere di non sapere. Era meglio far finta che tutto fosse come sempre. Lei che si muoveva agile in cucina a fare le sue solite cose magari canticchiando una canzone sottovoce.
Ora lei non canta più, ha gli occhi di un azzurro polveroso e opaco, fissi nel vuoto, persa nei suoi pensieri. Passa le ore seduta sulla sua sedia a rotelle e pensa. Forse ricorda.
La sua bellezza si è persa, sgretolata nel susseguirsi impassibile dei giorni.
Mi sembra una vecchia bambola rotta dimenticata in un angolo.
Ho le giornate scandite dai suoi bisogni. Sono prigioniero di lei. La colazione alle otto, alle dieci lo spuntino e poi la pillola e poi il riposino… mi sembra un carcere questa mia vita travolta dal suo desiderio di vendetta che è sopravvissuto a mio padre. Lui morendo se n’è liberato.
Mi sembra un carcere e ora rimpiango che lei non sia fuggita incontro ai suoi sogni liberandosi e liberandoci.
Ma lei mi guarda con quello sguardo placato che non vede e fa finta di non accorgersi del mio rancore.
Mi tiene nella prigione del mio amore per lei anche ora che è un mucchietto d’ossa e faccio fatica a ricordare le sue lunghe gambe snelle, le calze di seta scura e i suoi biondi riccioli fragili.
Io stesso vedo il tempo scivolare via mentre la mia vita è al palo di questa lunga agonia. Ogni giorno uguale all’altro. Ogni giorno la stessa litania di gesti e di parole. La stessa…e niente cambia.
Perché non sei scappata mamma? Quando mettevi il cappellino sui capelli biondi? Quando spruzzavi il profumo all’incavo del seno dove io lo percepivo leggero e rimaneva come un’ombra nei miei pensieri?
Perché non sei scappata incontro alla vita invece di fuggirne delusa o forse impaurita? Perché?
Dovrei odiarti mamma per quello che mi hai fatto. E forse un po’ ti odio davvero, ma ti accarezzo i capelli che hai folti e bianchi oramai e mi sembrano sottili come quelli di un bambino e tu mi guardi con quegli occhi trasparenti che sembrano guardare altrove oltre me, oltre l’orizzonte, senza più rabbia ma con quella quieta rassegnazione di chi avendo rinunciato a tutto accetta l’inevitabile.
La mia tenerezza ti sfiora come una carezza e, vincendo il rancore, si stempera nella pietà per una tragedia voluta e compiuta a cui non c’è più rimedio.
Che inutile beffa è la vita! Nell’imprevedibile dispiegarsi di un destino, sbagli un sentiero e ti perdi per sempre…








2 commenti:

  1. è bellissimo questo passo...che cos'e?
    scusa mi presento....sono anella...ti ho trovato su anobii

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  2. Ciao anella, questo è un mio racconto che è stato selezionato al "Premio San Vitale" un concorso letterario ed è inserito in un'antologia. Oltre ad essere una gran lettrice io scrivo racconti e romanzi e articoli giornalistici on line.
    Con che nome sei su aNobii? A presto

    RispondiElimina