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lunedì 23 luglio 2012

BELLI CAPELLI

Belli capelli, l'infanzia sfruttata


Belli capelli, neri, ferrigni e forti, sparsi su un viso cotto dal sole, a coprire quasi gli occhi.
Occhi scuri, occhi che non sorridono. Pozzi neri di un dolore profondo senza ristoro.
Aicha, le mani screpolate, le unghie rotte e nere, il corpo fragile e sparuto non dimostra i dieci anni che ha. Non sa ne leggere ne scrivere. Non sa forse neanche parlare, perché non le parlano mai da quando a cinque anni suo padre l’ ha venduta per pagare un debito che aveva fatto per non morire di fame, lui, sua moglie e i loro sei figli.
Aicha era l’unica femmina e perciò era quella che valeva di meno.
Non vede sua madre da allora. Non sa se sta bene, se ha avuto altri figli e figlie, non sa neppure se è ancora viva.
I primi tempi Aicha piangeva tutte le notti. I primi tempi sperava che suo padre sarebbe tornato a prenderla, non era un uomo cattivo dopo tutto. 
I primi tempi, ma poi aveva capito. Aveva saputo che lui non sarebbe tornato. Che lei era perduta come se fosse morta.
Aveva cambiato tanti padroni da allora. Aveva lavorato nelle cave di argilla, aveva bruciato le sue piccole mani nelle fabbriche di mattoni. Aveva lavato montagne di panni al lavatoio. Aveva perfino tessuto tappeti per i turisti.
La sua ultima padrona era vecchia e viveva in campagna. Piccola e scheletrica, aveva occhi acquosi e mani dalle dita adunche e rattrappite. La sua casa, appena fuori dal villaggio, era circondata da campi coltivati. Possedeva una stalla e un pollaio. Era ricca! Ricca ma avara.
Aicha aveva sempre fame, dall’alba quando apriva gli occhi, al tramonto, quando si buttava prostrata dalla stanchezza sulla paglia della stalla dove la vecchia la costringeva a dormire.
Pochi tozzi di pane, qualche volta una ciotola di verdure bollite, questo era tutto. E così Aicha certe volte rubava il pastone delle galline o mangiava qualche frutto selvatico che riusciva a trovare. Avrebbe mangiato perfino la paglia se avesse potuto.
Un giorno aveva rubato un uovo. Aveva pensato che la vecchia non se ne sarebbe accorta, perché le uova erano tante quel giorno e lei ci vedeva poco. 
Per quella volta non era successo niente, ma Aicha aveva paura di essere scoperta e così non aveva più trovato il coraggio di farlo di nuovo.
Aicha aveva smesso di piangere da tempo. Si era accorta che non serviva. Nessuno si accorgeva di lei. Le lacrime avrebbero prosciugato le sue poche forze che a lei servivano per sopravvivere.
Perché questo faceva dall’alba al tramonto, di giornate sempre uguali, faticose fino allo stremo.
La sua padrona precedente, invece, era buona. Aveva grandi occhi tristi che la guardavano con tenerezza. Le dava abiti e cibo e non la batteva mai. Aicha con lei era contenta. Le faceva compagnia durante le lunghe assenze del marito.
Questi era un uomo alto e massiccio, con piccoli occhi porcini, acuti e insinuanti. Aveva modi bruschi e rozzi, ma non era cattivo. Qualche volta tornando dai suoi viaggi, le portava piccoli doni.
Aicha non credeva alla sua fortuna, eppure c’era qualcosa in lui che la spingeva a tenersi a distanza.
Forse era il suo modo di guardarla, quel suo prenderle le mani trattenendole nelle sue, insistenti e sudate. Forse era quel suo starle dappresso, quando era in casa, spiandola e seguendola in ogni angolo della casa…
Un giorno la padrona le disse:” Aicha, figlia mia , qui tu non ci puoi più stare…”
“ Ma che ti ho fatto padrona?” le chiese Aicha con le lacrime agli occhi.
“ Stai crescendo, figlia, e qui non ci puoi più stare.”Ripeté la padrona
Aicha non capiva e si disperava, pregava, supplicava. Non ci fu niente da fare e fu così che finì fra le mani della vecchia.
“ E’ per il tuo bene, figlia.” Le disse la padrona al momento del commiato.
Ma quale bene era quello che la fece finire in una stalla a mangiare i semi delle galline e le ghiande selvatiche che perfino i maiali stavano meglio di lei?
Belli capelli si, aveva Aicha ed erano la sua unica bellezza. Ne andava fiera, perché mai erano stati tagliati. Li fermava con qualunque cosa, sulla sommità della testa, ma quelli ribelli e abbondanti, sfuggivano da ogni laccio e le adornavano il viso come uno scuro merletto.
“ Questi capelli, mi faranno trovare marito.” Fantasticava lei in quei suoi rari pensieri confusi, che non trovavano parole per esprimersi, ma si traducevano in emozioni fuggevoli, che la lasciavano di volta in volta tranquilla o triste a seconda dei momenti.
Nella sua mente, i pensieri incerti e dispersi, si aggrovigliavano in sensazioni indistinte, in emozioni pallide che lei non era in grado di esprimere.
Viveva alla giornata, senza il senso del passato né quello del futuro, come un piccolo animale spaurito e abbandonato.
Ma i suoi capelli erano belli e quando la sera li scioglieva, coprivano come un manto il suo corpo magrissimo, in cui le ossa quasi foravano la pelle.
I suoi capelli le facevano da barriera contro il freddo, contro la paura, contro la vita…
Ma in quella paglia su cui giaceva, senza saperlo si prese le pulci.
Voraci più di lei, si nutrivano del suo sangue, e in quei capelli scorazzavano imprendibili e vittoriose.
Si staccava la pelle con le unghie Aischa, per trovare sollievo al prurito invincibile. La vecchia la guardava diffidente e ostile, sospettando una malattia vergognosa.
Così Aicha all’alba e al tramonto, nel segreto della stalla, piegava in giù la testa e scuoteva la massa corvina dei suoi capelli, con l’illusione di liberarsi da quegli ospiti indesiderati.
E non sapeva che la vecchia la spiava.
Un brutto giorno, la vecchia irruppe nella stalla mentre Aicha dormiva. Le buttò addosso una coperta per immobilizzarla. Era forte nonostante la vecchiezza. Forte e determinata.
Le sue mani adunche bloccarono la bimba, sotto il peso del suo corpo, poi cacciò fuori da chissà dove, un gran paio di forbici.
A ciocca a ciocca caddero i capelli di Aicha, lentamente, inesorabilmente, bagnati dalle lacrime di lei che li guardava cadere, impotente. Tutta la sua ricchezza, tutta la sua bellezza, finita, dispersa in quel mucchio di capelli sparsi sulla paglia.
Dopo un tempo che le parve interminabile, la vecchia la lasciò libera. Si infilò le forbici in una tasca e senza dir nulla uscì dalla stalla.
Tutto si era svolto in un silenzio irreale, perché Aicha non aveva parlato, né gridato. Perfino i movimenti inconsulti con i quali aveva cercato di liberarsi, erano stati silenziosi, a parte il tramestio della paglia smossa.
Si passò le mani sulla testa, e sentì sotto le dita come dei piccoli aghi che pungevano.
La vecchia aveva lavorato bene. Era rimasto ben poco di quel che un tempo c’era stato.
Aicha, accoccolata, il mento sulle ginocchia nodose, guardava la massa scura dei capelli. I suoi occhi ora senza lacrime sembravano vuoti, come impietriti. Poi raccolse le ciocche con gesti lenti e dolorosi e se le strinse al cuore…

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