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sabato 31 marzo 2012

TROPPO LONTANO E’ IL CIELO




Il mio presente è una malattia contratta nell'infanzia. Perciò ho deciso di capire come.. Non c'è teoria, ma groviglio di piccole catastrofi, giocate dentro gli spazi interstellari della mente.

Forze feroci si contendono il mio essere.
Non so chi sono. Né chi sono stata. Un dolore diverso da qualsiasi dolore patito finora si preannuncia.
È questa la paura che tiene uniti gli sfilacciati brandelli del mio essere? C'è il dolore alle fondamenta di tutto? Ho una sete ch'è simile all'arsura della terra bruciata.
È difficile immaginare una esistenza più monotona, più squallida, più impoverita d'ogni gioia della mia. Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora e sempre l'immensa noia di quella calma morta che durava, e dura inalterabile, nel tempo sospeso, su cui galleggiano esausti, i rapporti all’interno della nostra famiglia.


La donna camminava con lunghi passi nervosi eppure falsamente sicuri. Lo sguardo diritto davanti a se, senza vedere i rari passanti che incrociava, quasi fossero ombre, piccoli incidenti di percorso, nel flusso caotico dei suoi pensieri.
Era graziosa eppure inconsapevole. Il suo sguardo era diretto e chiaro eppure opaco come vedesse il mondo attraverso delle lenti spesse.
Si dava o almeno cercava, il contegno di chi sa dove va e perché ci va. Come se non ci fosse nulla da aggiungere o da esitare. Ma era solo una finta. Il cuore in subbuglio galoppava nel suo petto e lei continuava a chiedersi: “ Che faccio perdio? Posso ancora voltare le spalle…Non devo fare altro che tornare sui miei passi finché sono in tempo…”Ma invece svoltò in una strada stretta. Il portone era solo accostato. Lo spinse con la mano esitante e quello si aprì senza sforzo.
Le scale erano ripide e buie. Uno strano odore di umido e di polvere che non avrebbe mai più dimenticato, aggredì le sue narici.
Anche la porta era solo accostata. Si aprì con un leggero cigolio che la fece sussultare. Entrò e la chiuse facendo scattare la serratura.
Si guardò intorno. Era un bilocale non troppo grande. L’ambiente poteva essere quello della sua casa.
Borghese e anonimo.
Quadri alle pareti, il solito divano sistemato davanti alla tv, un tavolo con quattro sedie, una credenza. Niente libri…la cosa la colpì subito. Una casa senza libri.
Una casa dove non albergano i pensieri, ma solo le azioni repentine, solo l’impulso del momento.
In casa sua invece di libri ce n’erano molti. Libri pieni di pensieri, pieni di tutte le parole che non venivano mai pronunciate. Libri pieni di rabbia o di amore, di guerre, di dolori, di felicità altrui.
Libri sui quali la polvere si impastava coi silenzi, fino a farla sentire soffocata.
La donna continuava a guardarsi intorno, incerta. Per fortuna lui non era ancora arrivato.
Aprì una porta, era il bagno. Un tipico bagno maschile, asciutto, disordinato, pulito con distrazione, quasi fosse un luogo di passaggio.
Aprì un’altra porta e fu in camera da letto. Il cuore le si strinse. Fu presa dall’impulso di voltare le spalle e andare via il più lontano possibile da quella luce fioca che entrava dagli scuri accostati di quel mattino dolorosamente impreciso in cui lei aveva deciso…Ma entrò…
Alla porta d’entrata una chiave girò nella toppa…

Mia moglie è morta ieri pomeriggio. Ora forse non se ne rende ancora conto, ma presto lo scoprirà
e io potrei interpretare la parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo. Vivere con lei mi ha insegnato a ingannare me stesso, e l'ho trovato un eccellente modo per imparare a ingannare gli altri. Naturalmente io so che lei non farebbe niente del genere. Mia moglie è troppo equilibrata, troppo ancorata al presente per pensare di farsi del male, pur facendosene spesso, inconsapevolmente è ovvio. È mia opinione che non si sia preoccupata di quello che aveva fatto.

E’ incapace di provare rimorso..
E sono stato io a ucciderla.
E’ stata una cosa lenta e forse quasi indolore, se non negli ultimi tempi, quando chissà come è diventata consapevole.
Questo realmente è stato un problema. Fino a quel momento recitavamo la parte della coppia unita, invidiata dagli amici.
Non eravamo felici. Ma in fondo finché uno non lo sa, non è importante.
Il guaio è stato che lei l’ha capito.
Me ne sono accorto subito, scovando la rabbia nei suoi silenzi ostili che tenacemente io ignoravo.
Ha perfino cercato di parlarne. La cosa più stupida del mondo come se le parole potessero avere il potere di farmi diventare quello che non sono mai stato, l’uomo che lei si era illusa di creare, come tutte le donne che ti sposano finendo per farti da madre.
E a farmi da madre ci riusciva bene e io la accontentavo con le mie piccole bugie, inganni innocui che le davano l’illusione di controllarmi attraverso le mie insicurezze, il mio essere maldestro che mi liberava dell’obbligo di occuparmi di lei, lasciando che fosse lei a farlo per entrambi.
La cosa poteva pure funzionare dico io, se solo lei non avesse avuto quell’assurdo vizio di pensare. Di annegarsi di pensieri, di analisi, di costruzioni mentali, con le quali sostituiva la vita che io le negavo.Ci ho messo anni a spegnere la luce nei suoi occhi, la luce che avevano quando la conobbi, piena di vita e di segreti e impercettibili dolori che la spinsero verso di me come verso una calamita.
Ora lei pensa che io non mi sia accorto di niente. Con l’immensa ingenuità delle donne, pensa che io ignori ciò che con fatica, devo dire, sto fingendo di ignorare da mesi: e cioè che era come un frutto pronto per essere colto, prima di cadere a terra maturo fino al disfacimento e pronto per essere calpestato.
Credo che questo la attiri più di ogni cosa al mondo. Ci è stata abituata al punto di ricavarne un oscuro e malsano piacere del quale neanche mi sono accorto di approfittare.
In effetti volevo solo che mi lasciasse in pace, con le sue esigenze i suoi dolori le sue angustie.
Volevo solo che mi vivesse accanto senza chiedere niente di ciò che non ero disposto a darle. Comunque non ne sarei stato capace.
Ho questa abulia dei sentimenti io, come una porta chiusa che non può aprirsi.
L’illusione l’ha uccisa. L’illusione di vedere oltre quella porta ciò che non c’era né poteva esserci.
Ci sono voluti anni per ucciderla. Non mi ci sono neanche applicato più di tanto. Bastavano i silenzi, il non sfiorarla mai anche solo per errore, la mancanza totale di ogni tenerezza.
Mi è bastato guardarla senza vederla come se fosse stata trasparente e in effetti lo era per me. Mi è bastato sentire i sui discorsi senza ascoltarla facendo ben attenzione che ne fosse sempre e comunque consapevole…
Ora lei crede che io non mi sia accorto che è all’ultima spiaggia.
E glielo concedo pure dopo tutto. Non resta più tempo oramai né per me né per lei. Certo non per noi.
Non so nemmeno se mi importa. Vedo il suo sorriso falsamente sicuro e potrebbe essere il ghigno di un cadavere.
Che si illuda una volta ancora. Questo glielo posso anche concedere, prima che il buio denso che ci incatena l’uno all’altro come l’ultima vendetta della vita si chiuda definitivamente.
Solo uno sopravvivrà e sarò io…

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